sabato 7 novembre 2009

OTTOBRE - anni '60




Ottobre

Anni 60

A ottobre il clima è mite nella mia isola. I ragazzi che hanno un motorino ne approfittano per spostarsi nelle spiagge esposte a occidente, là dove il sole è più caldo, fare gli ultimi bagni; gli anziani, per chiacchierare sulle panchine o passeggiare nel primo pomeriggio e sentirsi meno sol nei paesi, le mamme per tenere i figli all’aria aperta.
Anche mia madre in quell’ottobre di cui non ricordo il giorno, ma solo l’anno, ci portò ai giardini pubblici, di fianco alla spiaggia de Le Ghiaie, nello spazio dove c’erano i giochi e gli animali in gabbia.
La scimmia, il macaco di nome Marco, mi faceva un po’ paura; non era un bel vedere quella pelle spelacchiata e quelle zampe che si allungavano verso chi si avvicinava alla rete.
Mi piaceva invece il pavone quando faceva la ruota. Rimasi a guardarlo aspettando che aprisse la sua coda per due volte, poi mi diressi all’altalena.

Era bello andare sull’altalena. Mi spingevo da sola, piegando al massimo le gambe sotto la tavoletta e cercando ogni volta di darmi più slancio che potevo e arrivare sempre più in alto. Ci avrei passato il pomeriggio. La gonna a pieghe volando si apriva, imitando la ruota del pavone.
Di solito avevo tutto il tempo per soddisfare il mio gioco preferito. Quando le mani dolevano perché troppo a lungo avevano stretto la corda, smettevo.
Quel giorno, quel momento non era ancora arrivato. Si stava bene ai giardini; c’erano altre mamme, altri bambini ed io volavo, volavo e stavo bene.
Ogni tanto scendevo per bere alla fontanella. Vicino alla gabbia, c’era il magazzino del giardiniere comunale, sempre chiuso. Non che l’uomo non lavorasse, lo vedevo passare con la carriola lungo le aree in cui erano divisi i giardini. Le siepi di pitosforo dividevano un’area dall’altra e sentieri di ghiaino le univano. Lui andava avanti e indietro raccattando foglie e fogli che poi rovesciava vicino al magazzino.
La fontanella stava oltre il magazzino, dalla parte opposta della gabbia degli animali, il nostro zoo lillipuziano, anche se all’isola non c’era bisogno di uno zoo per conoscere gli animali. Bastava alzare gli occhi per vedere i gabbiani sul mare, i passerotti sugli alberi. Per le strade viaggiavano le carrozzelle trainate da cavalli e quasi tutte le famiglie avevano parenti che tenevano la campagna e quindi asini e galline e conigli e talvolta mucche e capre.
Stavo bene sull’altalena, il sole era tiepido verso le quattro. Era presto per rientrare. Così credevo finché mamma mi chiamò.
“ Dobbiamo andare.”
“ E’ presto.”
“ Dobbiamo andare al porto, arriva babbo.”
“ No, ancora due giri.”
“ No! Tu vieni .”
“ Accidenti a lui!”
Schivai uno schiaffo per un pelo. Lo sapevo che accidenti era una parola che non si doveva usare. La dissi per fare la grande, avevo quasi otto anni e mi sentivo tale.
Del porto ricordo quasi nulla, forse babbo vestito con la divisa bianca estiva che scendeva dalla nave. Era strano vestito così di bianco ed erano strane le scarpe con le stringhe immacolate.
Era strano soprattutto a terra, quando si andava verso casa, dove subito si cambiava perché odiava le divise. Per questo, dopo l’anno di leva trascorso in parte a La Spezia e in parte all’Accademia navale di Livorno, non rimase nella Marina Militare,; voleva essere libero e per tanto tempo lo fu navigando sulle petroliere dove l’equipaggio era una famiglia e non c’era bisogno di indossare i gradi per governare una nave. Poi, per amor nostro, tornò a lavorare vicino a casa e gli toccò indossare la divisa, anche se non per la Marina, ma per un armatore privato. D’inverno era di colore blu scuro, d’inverso, in estate bianca.
A ottobre, era ancora bianca e, divisa o non divisa, adoravo mio padre, anche se era severo. Con me, in fondo, non lo era.
Certo dovevo comportarmi come una signorina, non interrompere i discorsi dei grandi, mangiare con forchetta e coltello, non fare domande inopportune, però lo amavo perché sentivo il suo amore sulla pelle, quando m’infilavo nel lettone con i miei o quando mi passava di nascosto le noci sotto al tavolo e quando rideva nel raccontare che era dovuto andarsene dal ristorante perché a voce alta avevo fatto notare che due adulti non avevano ancora imparato a mangiare i gamberoni col coltello e la forchetta.
Ed anche un’altra volta lo costrinsi, mio malgrado, a uscire da un ristorante, a Napoli, dopo che nella sala ero corsa verso di lui urlando che avevo fatto la popò sul vaso grande!
Quest’ultimo episodio però non lo ricordo, me l’hanno raccontato. Ero piccola e di Napoli m’è rimasta solo l’immagine di enormi Babbo Natale per le strade. Forse erano piccoli ed io li vedevo grandi. Chissà. Come mi sentivo grande, pur essendo piccola, mentre passeggiavo le sere d’estate accanto a un bambino di cui ho perso il nome e il viso nella memoria, mentre si camminava davanti ai nostri genitori nelle sere d’estate, a Giglio Porto.
Era bello come andare in altalena, forse di più perché sentivo il rumore della risacca e il rumore delle barche dei pescatori che rientravano e nel nero spiccava il bianco del traghetto dove lavorava babbo; nave che era un po’ la nostra casa e dove un vecchio marinaio mi faceva sentire le voci degli uomini che si trovavano a largo sui pescherecci. Quanto mi piacevano quei suoni che uscivano striduli da una scatola metallica e quel microfono dove lui abbassando leggermente la testa chiamava, non i marinai, ma il nome della barca! Ero piccola e mi sentivo grande.
Anche accidenti era una parola piccola piccola e divenne una parola grande grande e pesante come un macigno, un peso che mi portai sino a quando la ragione prevalse sull’emozione.
L’avevo detta senza cattive intenzioni, giusto per sentirmi grande e invece Qualcuno lassù l’aveva male interpretata. Che ne sapevo allora che accidente era un’imprecazione così negativa e che poteva tradursi in “ti venisse un accidente!”.
L’incidente avvenne dopo nemmeno un mese, a bordo di un’altra nave bianca, in una città lontana che non ho mai visitato e nella quale non voglio andare perché mi portò via lui in un giorno di novembre.
Accidenti è stato colpa mia il tuo incidente. Non volevo babbo, non volevo. Perché mi hai abbandonata?
La nave si piegò su un lato all’improvviso e tu volasti in alto, tanto più di me quando andavo in altalena e poi cadesti a terra, in quel bacino di carenaggio e non ci vedemmo più.

1 commento:

Anonimo ha detto...

ciao cara,
volevo augurarti buon natale e tante buone cose per il nuovo anno..

ciaoo